l'intervista
Una vita da arbitro, Giancola: "Ecco perché ho lasciato..."
Dopo le dimissioni, l’ormai ex fischietto di Latina si racconta a 360 gradi: “L’ultima direzione è stata la migliore della mia carriera: ho chiuso al top. Il salto nel professionismo? Era troppo”
Arbitro: Giancola di Latina. Quante volte l’avrete letto nelle distinte dei match d’Eccellenza e Juniores Elite negli ultimi quattro anni. Beh, non lo leggerete più perché a 31 anni Emanuele ha deciso di smettere. Nonostante fosse uno dei fiori all’occhiello della classe arbitrale laziale, nonostante quel modo di fare maturo e tranquillo, tale da guadagnarsi il rispetto dei calciatori. Il salto nel grande calcio è stato rimandato, anzi annullato. Perché? Perché, come ci ha detto lui, la vita è un puzzle fatto di tante di fasi. Per lui, quella col fischietto alla bocca, è terminata un pomeriggio di primavera di due anni fa a Frascati.
Sei stato definito uno dei migliori e promettenti arbitri del Lazio. Perché hai lasciato?
“Ho sempre pensato che oltre quella sportiva, la vita sia divisa in periodi. Ho chiuso a 31 anni e dopo l’ultima gara, sono andato sotto la doccia pensando: «Ho fatto quello che dovevo fare». Ho deciso di iniziare una nuova fase della mia vita. In un contesto di squadra, un calciatore si sente protetto dal leader. Se sei arbitro, sei da solo: in quel momento, o ti scatta ogni anno qualcosa che ti porta ad essere punto di riferimento di te stesso o ti fermi. Ho abbandonato proprio perché nella partita successiva non avrei dato il 100%”.
Una scelta venuta da te o da qualche fattore esterno?
“Quando arbitri pensi a tante cose, a riuscire a migliorarsi ed è difficile. è un meccanismo che si crea. Il fattore esterno è un alibi che si crea la persona perché non se la sente più di andare avanti. Era talmente tanta la pressione negli ultimi anni di Eccellenza che mi son detto: «Non posso fare più di così»”.
Hai chiuso alla grande. Perconti – Ceccano, finale di Juniores Elite: una direzione impeccabile...
“La mia ultima gara e forse la migliore. La regola del vantaggio che ho dato sul secondo gol è stata fatta vedere a Coverciano durante un raduno di Serie D. Queste sono le più grandi soddisfazioni che un arbitro può togliersi”.
Quindi hai cambiato vita.
“Mi piace ancora vedere il calcio dilettantistico, lo osservo con maggiore serenità e ti posso garantire che il livello nel Lazio è altissimo”.
Come hai iniziato?
“Ho cominciato ad arbitrare per caso ed ho continuato per scelta. Ho accompagnato un mio amico e mi è piaciuto. Una volta mio padre mi chiese: «Perché hai iniziato?”, non ricordo la risposta che diedi, ma la grande emozione che ho avuto nel darla sì”.
Non hai mai sognato palcoscenici più importanti?
“Esistono quattro tipi di arbitri: i predestinati, i talentuosi, quelli che si impegnano poco e infine quelli che hanno discreto talento e si impegnano tanto. Io faccio parte dell’ultima categoria: ho realizzato i miei sogni, ma alla fine mi sono reso conto che più di così non potevo fare. Ammetto di non aver avuto la predisposizione, ma mi reputo soddisfatto”.
Come il lavoro dei club nei Dilettanti del Lazio, che è stato il tuo mondo negli ultimi anni?
“Purtroppo dove c’è il professionismo non c’è etica, il vero calcio è anche quello dei dilettanti dove ci sono delle persone che professano ai ragazzi il divertimento e il piacere dello sport. In molti li prendono dalla strada e li mettono in mezzo a un campo di calcio. Bisogna far riconoscere ai più giovani che i più grandi impostori nella vita di un uomo sono la vittoria e la sconfitta”.
Le tifoserie laziali sono sempre state calde: come gestite la pressione tra fischi e insulti?
“Quando inizi, sei giovane e fai settore giovanile è più complicato, ma andando avanti nel tempo impari a non sentirli più. Sono un rumore di sottofondo. Arbitrare è difficile, devi pensare a molte cose e devi essere equilibrato. L’insulto non fa piacere, ma sei talmente impegnato nel seguire la partita, che non hai neanche orecchie e cervello per ascoltarlo. Anzi, spesso il pubblico ti aiuta a captare se il livello del match sta salendo. 90 minuti per un arbitro sono più faticosi di quello che si crede: ero abbonato a 4-5 ore di emicrania dopo il triplice fischio...”
Quante colpe hanno gli arbitri quando il nervosismo nella gara è troppo alto?
“Bisogna contestualizzare. Se per un direttore di gara diventa una costante, deve andare a rivedere qualcosa nel suo metodo di lavoro. La chiave di tutto è chiedersi il “Perché”. Deve essere bravo a fare questo. Il cliché dell’“Arbitrare all’inglese” è solo un alibi, una stupidaggine”.
Quindi perché si sbaglia?
“Per due motivi: posizione errata e mancanza di concentrazione. Se dopo 30 secondi, dopo un brutto fallo non tiri fuori il rosso, ma il giallo, la scelta ti rovina la gestione del match. Il direttore di gara deve mantenere una coerenza”.
Tu in che maniera ti sei posto con i calciatori?
“Quando ho scelto di smettere, ho ricevuto messaggi da parte loro: mi ha fatto piacere. Una cosa che facevo prima delle partite era imparare i nomi dei giocatori. Era questo il mio primo passo verso un rapporto basato sul rispetto e la tranquillità, il mio punto di forza”.
Toglici qualche curiosità: il giocatore più che forte che hai diretto?
“Ero a Civitavecchia, al Torneo Perla del Tirreno. Lazio – Napoli di Primavera: c’era un certo Lorenzo Insigne. Rispettoso e più forte di tutti”.
Nei Dilettanti invece?
“Ce ne sono tantissimi, se ne devo scegliere due dico Marcheggiani del Rieti e Fioravanti dell’Anzio”.
Il più difficile da arbitrare?
“Ne ho trovati pochi. Per farmi perdere la pazienza ce ne vuole...”
L’allenatore che ti ha fatto più “dannare”?
“Fabio Lucidi. Urlava tantissimo, non nei miei confronti, ma verso i suoi giocatori... Era difficile tenerlo a bada, ma mi ha fatto sorridere in più di un’occasione”.
Un aneddoto: raccontaci la cosa più particolare che ti è successa su un campo di calcio.
“Promozione, Fontana Liri-Ceccano: in tribuna stava succedendo di tutto, ci hanno scortato, è arrivata addirittura la Digos... Cose mai viste. Invece nel corso di una partita del La Rustica a Monterotondo, sono entrati quattro cani a match in corso. Situazione imbarazzante da gestire (ride, ndr)...”
Come un giocatore sbaglia un gol a porta vuota al 90’, anche l’arbitro può cambiare, con un errore, il destino del match. Qual’è la reazione?
“Se un direttore di gara, errando assegna un penalty nei minuti finali, vuol dire che è stato sbagliato qualcosa prima: come detto prima, mancanza di concentrazione ed errore di posizione. Se non ti impegni al massimo, non ti puoi prendere le tue responsabilità. A me è successo e posso assicurarti che è un peso che ti porti appresso fino al fischio d’inizio della partita seguente: si va su un campo non per dare il meglio di sé, non per rovinare la domenica a qualcuno...”.
Per evitare certi errori, nel corso della settimana come si prepara un arbitro?
“Esclusa la questione atletica, bisogna fare training autogeno. Quando il lunedì conosci la partita a te assegnata, devi studiarti le due squadre dal punto di vista tecnico e tattico: così diminuisce il margine d’errore”.
Un pensiero sull’AIA: come sta lavorando? C’è qualcosa che andrebbe migliorata?
“Ha fatto molti passi in avanti: lì dentro ci sono 40 mila persone che stanno lavorando in maniera eccezionale. Questo non significa che ogni arbitro è da Serie A, ma c’è un dedizione che non può che essere definita positivamente. Si nota una voglia di fare sempre un passo in più in avanti. Quando mi sono trovato a salutare tutti i ragazzi di Eccellenza e Promozione con i quali ho arbitrato, sono uscite fuori emozioni stupende, amicizie importanti nate lì. Se l’Aia riesce a creare rapporti del genere vuol dire che si sta lavorando bene”.
Cambieresti qualcosa dell’attuale regolamento?
“Toglierei l’ammonizione per l’esultanza dopo il gol: non è giusto punire la componente emozionale”.
Il tuo punto debole?
“L’altezza (ride...) A parte gli scherzi: nei primi anni di Promozione soffrivo dal punto di vista del temperamento. La mia personalità usciva poco fuori, soprattutto nelle gare con un’alta carica agonistica”.
Perché un ragazzo dovrebbe scegliere di fare l’arbitro e non il calciatore? Che consigli gli daresti?
“Nell’immaginario collettivo c’è il pensiero che se fai l’arbitro non sai giocare a pallone. Non è vero. è semplicemente un modo diverso di fare sport, ti fa maturare molto velocemente e ti dà grande consapevolezza. Misura i tuoi limiti e i tuoi punti di forza. Sul terreno di gioco devi essere te stesso: questo è il trucco e il consiglio che dò a tutti. Ti aiuta a vivere lo sport e il “peso della giacchetta” in maniera meno superficiale. Questa è un attività che, fatta in maniera giusta, ti fa crescere come uomo”.