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l'intervista
24 Giugno 2020
Fabio Lucidi osserva l'azione di gioco ©Facebook
Due campionati vinti di seguito a Serpentara, dalla Promozione alla Serie D, poi lo stop. Stagione 2014-2015, Fabio Lucidi era, fuori da ogni discussione, uno dei tecnici più apprezzati del calcio laziale. Lo è tuttora, nonostante gli ultimi cinque anni lontano dal campo, senza considerare la possibilità di tornare in panchina. Cinque anni in cui in tanti, compreso chi scrive, si è chiesto semplicemente: perché? Perché uno degli allenatori più preparati della nostra regione non ha più condotto una squadra? Perché un tecnico capace di vincere, qualità rarissima, non è stato convinto da nessun club? Quesiti che abbiamo posto a lui. E le sue risposte, come sempre, non sono mai banali.
Ricordi il tuo ultimo anno a Serpentara?
“Iniziammo male la Serie D per ambientamento e difficoltà del girone. Io avevo cominciato un'altra attività, compresi che non c'erano margini per dare tutto a entrambe le situazioni, così ho rassegnato le dimissioni e ho lasciato. Non mi andava più di allenare”.
Suppongo le proposte non mancassero, perché non sei tornato in panchina?
“Terminati i play off vittoriosi con il Serpentara mi aspettavo di ricevere anche altre offerte. è vero che sarei rimasto comunque con i miei ragazzi, ma l'unica chiamata che ho ricevuto era quella di mia moglie che mi inviatava a trovarmi un lavoro serio".
Come te lo sei spiegato?
“Mi sono detto che evidentemente per attirare l'attenzione dei club, anche di categorie superiori, quello che avevo fatto non era così importante come ritenevo io. Questa è l'unica spiegazione logica che mi sono dato, sono stato molto critico con me stesso ma anche realista. Pensavo che due campionati vinti alle spalle fossero un risultato di rilievo, probabilmente mi sbagliavo, così in mancanza di riscontri mi sono dedicato ad un'altra attività”.
In cinque anni avrai avuto almeno un contatto.
“Questo è normale... Durante i primi tre anni però non ho preso in considerazione nulla. La scorsa stagione ho sentito la voglia di tornare, però solo a condizione di partire dall'inizio, una possibilità che non si è presentata. Non mi piaceva l'idea di subentrare, sentivo la necessità di impostare il lavoro sin dal primo giorno di ritiro perché avevo alcune nuove idee che volevo sviluppare, entrando in corsa sarebbe stato un terno al lotto”.
Oggi questa voglia la senti ancora?
“Si, però vale lo stesso discorso, se arriva qualcosa nei tempi giusti la esamino, come chi la propone esamina me, nel caso in cui ci trovassimo d'accordo potrebbe nascere qualcosa”.
Come riempi il vuoto del campo?
“Sono un tassista del 3570, faccio calcio lì, con il gruppo sportivo. Ragazzi meravigliosi. Il bello di questo sport è che si può fare ovunque e si vivono le stesse emozioni. Il nostro sogno stava diventando realtà, stavamo vincendo il nostro campionato, poi si è fermato tutto. I sogni non hanno categorie, sono ovunque si trovi un gruppo di ragazzi che ama questo sport e che è disposto ad assorbire insegnamenti”.
In tanti dicono che sei uno al quale non si possono porre condizioni.
“La sfera tecnico-tattica è di competenza dell'allenatore, poi c'è un direttore sportivo con il quale ci si confronta e ogni singolo componente del club con il quale si deve lavorare per ottenere i risultati. Ogni membro di una società deve dare tutto per il bene comune e anche l'allenatote deve andare incontro alla dirigenza. Ma dentro la sfera tecnico-tattico non si entra mai”.
Questo secondo te ti penalizza?
“Se una società si intromette in questa sfera, parlo di formazioni, uomini e soprattutto raccomandazioni, non si può fare calcio. O almeno io non ci riesco”.
Ci hai mai provato?
“Lo spogliatoio è il posto dove la società non deve e non può entrare. Ci può stare la sfuriata del presidente e del direttore, ma anche in quel caso ci sono i modi giusti, non si può entrare e insultare dopo una sconfitta. Quando è successo ho discusso con queste persone. Nessuno può toccare i miei giocatori, figurarsi prenderli a parolacce. Bisogna capire che non sempre si possono ottenere i risultati sperati”.
Oggi siamo tornati sul tema degli allenatori che ottengono panchine in cambio di sponsorizzazioni.
“Bisogna distinguere gli allenatori bravi da quelli non bravi. Ci può essere quello bravo che non ha bisogno di portare lo sponsor, oppure quello che pur essendo bravo lo porta perché magari si aiuta da solo per poter svolgere la professione. Infine ci sono quelli che non sono bravi e che senza portare lo sponsor non allenerebbero.Ma alla fine per me l'unico giudizio su un tecnico lo può emettere solo il campo”.
E qual è la tua idea?
“Beh che qualche domanda uno se la dovrebbe porre, però in periodo di crisi posso comprendere il presidente che accetta e dà una possibilità per poi riparlarne a dicembre. È vietato? Non mi sembra visto che mai nessuno è intervenuto per fermare queste situazioni. Ma ogni mister quando si guarda allo specchio sa se davvero è in grado di fare un buon lavoro. E quello fa la differenza. Aggiungo una cosa”.
Prego.
“Si tratta di capire bene la figura dell'allenatore. Parliamo di un compagno di viaggio, uno del gruppo, una persona che parte per stare dentro lo spogliatoio e nella società per un anno intero, tutti i giorni. E un anno è lungo... Non puoi stimarlo solo per i risultati che ottiene, ma per come li ottiene, perché 365 giorni ti segnano a prescindere dal raggiungimento di un obiettivo. L'allenatore non è un ruolo che si limita al campo, è l'uomo che deve leggere negli occhi di ogni singolo calciatore e capire se qualcosa non va. ventidue giocatori, ventidue caratteri diversi, vite diverse. Entrare in empatia con ognuno di loro è difficile ma è la chiave per avere rapporti importanti in campo e fuori. Con il mister ci si passa quasi più tempo che con i familiari, deve essere in grado di aiutarti a superare le difficoltà della vita non solo della partita, deve rispettarti come uomo e come atleta, sempre, non solo quando gli servi da titolare. Il tecnico deve fare questo con tutti i suoi calciatori, creando delle regole per lo spogliatoio che poi deve essere in grado di far rispettare a tutti. Bastone e carota come un bravo papà. Questo è per me quello che deve fare l'allenatore”.
Il campo conta però.
“Lì si mostrano le competenze tecniche, quelle le hai o non le hai. Ma è impensabile affermarsi senza il giusto mix con tutto quello che per me significa la figura dell'allenatore. È talmente importante che nella vita ci sono stagioni e allenatori, che non dimenticherai mai più. A me è capitato”.
Quanto vale il lavoro dell'allenatore?
“Tanto, tantissimo. Io la vedo così. Questa professione è globale e importante, io quando guido una squadra quasi mi scordo della mia famiglia, perché ci sono ventidue ragazzi che seguo e che mi succhiano l'anima, nel senso positivo, ma tutto quello che mi tolgono poi me lo ridanno. E se arrivi a dama e vinci, diventa tutto indimenticabile, ma nel caso in cui non arrivassero i successi deve essere la stessa cosa”.
Pensi che ci siano presidenti che non comprendano questi concetti?
“Fatti loro, non mi interessa. Certo dal momento in cui sono disposti ad accettare una sponsorizzazione in cambio della guida tecnica non credo concepiscano a pieno il valore dell'allenatore nella vita dei calciatori. Ma questa è la mia idea, poi ognuno può fare come meglio crede. A me non cambia niente...”.
E lo hai dimostrato stando fermo.
“Tutto ha un prezzo, se hai dei principi e li vuoi far valere devi saperlo che rischi sulla tua pelle. Ogni lavoro importante, in ogni settore, deve essere retribuito nella giusta maniera. Se uno non conosce il proprio valore o la mole di lavoro che è capace di svolgere è normale che si possa far retribuire in maniera non adeguata. Ecco questo è il punto, fa più male al calcio chi si accontenta di poco che quelli che portano lo sponsor”.
Svalorizzano la figura dell'allenatore.
“E i calciatori lo sanno bene, se ne accorgono di queste situazioni. Andrebbe proprio cambiato il modo di fare calcio, ma non sono molto fiducioso”.
Eppure con la crisi tira aria di riforme.
“Non ripongo molto fiducia su possibili cambiamenti. La verità è che campiamo con la speranza che dal nulla venga fuori il nuovo Del Piero o Totti. Non mi sembra ci sia neanche il pensiero di una riforma importante. Qualcuno avrebbe la volontà di portare cambiamenti ma alla fine, stranamente, non viene mai assecondata”.
Un esempio concreto?
“Meglio lasciar perdere”.
In tanti preferiscono andare all'estero.
“Se lasci la patria del calcio per andare all'estero significa che devi avere ottimi motivi, specie se vai in paesi che col calcio non hanno tanta dimestichezza."
Sembri rassegnato.
“Il nostro calcio al momento è così. Usciti dai Mondiali non abbiamo mosso un dito, sarebbe stato il momento giusto per le riforme. Per fortuna Mancini, grazie anche a un girone agevole, è riuscito a portare buoni risultati e a rivalutare la Nazionale, ma i problemi restano e sono sotto gli occhi di tutti, anche di quelli che fanno finta vada tutto bene”.
Quanto pesa questo sulla tua scelta di tornare in panchina?
“Dove sono stato sono sempre riuscito a completare l'opera, significa che al di là dei risultati ho trovato quasi sempre ambienti sani, svolgendo un buon lavoro. Se arrivasse una chiamata ci si incontra, si parla, ci si scopre e poi si valuta. Non muore nessuno se ci si accorge di non essere fatti l'uno per l'altro. Anzi è meglio scoprirlo subito e lasciar perdere”.
La stima nei tuoi confronti non è mai mancata.
“La stima ha un valore importante, sono cosciente del lavoro che ho fatto ovunque, con i miei pregi e i miei limiti. Ma qui nel Lazio ci sono tanti allenatori bravi, il livello è alto”.
Esiste una realtà dove possono prendere forma le tue idee?
“Sì, al gruppo sportivo del 3570".
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