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Editoriale
16 Maggio 2016
Chi come noi frequenta da vicino il calcio giovanile si imbatte spesso in tristi manifestazioni di violenza e becera stupidità. I recenti fatti di Pavona e Pomezia rappresentano la regola e non l’eccezione. Perché? Ha ragione il nostro Direttore Editoriale Nicola Cavaliere sottolineando il fallimento del sistema calcio, delle sue Istituzioni. Ha ragione il Direttore Italo Cucci puntando il dito sulla mancanza di maestri competenti e l’ingombrante presenza di genitori incolti e scorretti. Per aggiungere qualche osservazione credo sia opportuno porre una domanda che, a prima vista, sembra spostare il problema in un emisfero culturale lontano dal nostro: perché nei campi del dilettantismo USA non si verificano gli stessi inqualificabili episodi? Perché in quel paese esiste una inestricabile fusione tra sport e cultura. Gli statunitensi non solo narrano lo sport come se fosse la loro epica ma, tramite esso, educano i loro ragazzi. Lo fanno all’interno del percorso scolastico secondario ed universitario, con l’ausilio di strutture da sogno e allenatori preparati e ben remunerati. In questi ambienti scolastici educare significa far comprendere ai ragazzi che lo sport può rappresentare una parte decisiva della loro formazione culturale. Tramite la sua pratica è possibile apprendere l’importanza delle regole e della disciplina; l’impossibilità di lottare per il raggiungimento di un obiettivo senza il sostegno dei compagni; il fatto che la sconfitta sia parte del gioco ed i più forti siano coloro che l’accettano risollevandosi. I ragazzi entro questo sistema sono costantemente stimolati a migliorarsi e responsabilizzati nella prospettiva del loro percorso di vita. Inoltre, dall’epica sportiva dei nordamericani, sulla quale i ragazzi proiettano i loro sogni, sono espulsi i campioni che non si distinguono sulla base di una coesione tra performance atletica e virtù morale. Un esempio è rappresentato dall’esclusione di un campione di baseball come Pete Rose dalla Baseball Hall of Fame in seguito alle accuse per aver scommesso su alcune partite mentre giocava e allenava i Cincinnati Reds. Si potrebbe continuare citando alcune regole istituzionali dei campionati professionistici di basket come il salary cap, l’equa distribuzione dei diritti televisivi e i vantaggi nella scelta dei migliori giocatori per le squadre ultime classificate. Tutto questo e molto altro contribuisce a costruire un ambiente culturale in cui la pratica dilettantistica dello sport diventa educazione civica e la fruizione dei grandi eventi un momento di festa e spettacolo in cui i tifosi si mescolano mangiando hot dog e bevendo birra. Non scrivo tutto questo per fare una apologia degli USA ma per sottolineare la differente esperienza dei ragazzi italiani i quali vivono in un ambiente in cui scuola e sport sono spesso agli antipodi. Infatti non solo siamo il paese europeo che dedica meno ore all’educazione fisica nelle nostre scuole, ma gli studenti che intraprendono una carriera sportiva sono spesso osteggiati dai loro stessi professori. La distanza incolmabile tra scuola e sport annulla il valore educativo dello sport dilettantistico: la sconfitta è vista come un fallimento; gli allenatori che non portano risultati vengono esonerati; si punta troppo sull’esasperazione delle componenti tattiche dimenticando di far “giocare” i propri ragazzi; i genitori interferiscono nel lavoro degli allenatori vedendo solo la componente di ascesa sociale. Un episodio raccontato da Gianni Mura narra meglio di tante parole il clima culturale in cui crescono i dilettanti italiani: durante una partita di allievi una delle due squadre si presenta in dieci perché decimata da un virus influenzale. L’allenatore della squadra avversaria chiede ai suoi giocatori se scendere in campo con dieci effettivi. I ragazzi accettano e giocando dieci contro dieci vincono per 4 a 2. Nonostante la grande lezione educativa dell’allenatore, il genitore dell’undicesimo giocatore andò a lamentarsi dal Presidente il quale minacciò l’allenatore di dimissioni nel caso il fatto si fosse ripetuto. In casi come questi sembra opportuna la pungente battuta di Paolo Pulici secondo il quale sarebbe meglio allenare una squadra di undici orfani. Nonostante sia spesso forzato confrontarsi con la cultura USA, l’esperienza d’oltreoceano insegna che lo sport non può non essere parte del processo educativo dei giovani di oggi. Più della scuola cattura i loro sogni e desideri permettendo così la realizzazione di una pratica educativa maggiormente attraente. Ma la sfida più grande è quella della costruzione di una cultura sportiva che sia parte di una più ampia educazione civica. Solo lavorando in questa direzione sarà possibile combattere la stupidità che troppo spesso oscura lo splendore dello sport più bello del mondo.
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