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L'intervista
30 Giugno 2016
Maurizio Silvestri con i suoi collaboratori @Facebook Maurizio Silvestri 1 VS 1
Avete presente quando vi dicono “quello era un fenomeno ma non aveva la testa...”. In tanti lo dicono di Maurizio Silvestri, cresciuto nelle giovanili della Lodigiani, sbarcato nella Primavera del Torino, ma talento mai espresso in tutto il suo potenziale. Beh, chi lo dice ha ragione, e basta vedere i video in cui esegue gli esercizi insieme ai suoi ragazzi. Non è per questo però che abbiamo deciso di intervistarlo, ma per il suo progetto “1 contro 1”, scuola calcio che si occupa della tecnica di base del singolo. Dai primi tre bambini, ai 350 di oggi, Maurizio Silvestri sta diffondendo il suo credo calcistico. Nei suoi filmati abbiamo rivisto soprattutto le tecniche di insegnamento dei “maestri di un tempo”, di cui noi parlammo in un articolo dedicato a Silvano Magheri. La sua e la nostra speranza è che non rimanga un caso isolato ma dia il coraggio ai vivai di tornare a scommettere sul modello italiano, quello che negli anni '90 ci permetteva di dominare il mondo e che si è perso per strada, scalzato dagli interessi economici e personali: “Non vorrei più vedere ragazzi pagare centinaia di euro e non essere seguiti a dovere – dichiara Silvestri all'inizio della nostra chiacchierata - Bisogna investire sugli uomini di campo, non sul kit firmato, sulla maglietta e il pantaloncino bello. Per carità l'attività della Scuola Calcio è un business e ha costi molto elevati ma, ripeto, il grosso dell'investimento deve puntare sugli uomini di campo, perché sono quelli che fanno la differenza sulla crescita del ragazzo”.
Cosa intendi esattamente?
“Noi imparavamo a giocare per strada, anche lo scavalcare il cancello per riprendere la palla era un'attività, un allenamento di coordinazione. Oggi gli spazi sono pochi, per strada ci si gioca sempre meno, l'unica possibilità è puntare sui giusti istruttori. L'allenatore non deve essere solo colui che ti spiega il situazionale di campo, deve essere un maestro, deve aiutarti a lavorare con una certa intensità, deve dedicare il suo tempo al singolo per fargli capire come posizionare il corpo quando riceve palla, come usare le braccia nella coordinazione al tiro ecc...”
E questo, insieme al gioco di strada, succede sempre meno.
“I ragazzi di talento e di prospettiva ci sono, ma spesso, anche nei club professionistici, non ci si lavora come si deve. Non bisogna concentrarsi sul suo difetto, ma si predilige l'aspetto economico e il lavoro di gruppo, andando a scegliere magari lo straniero che può farti la differenza nell'immediato per forza fisica. Il tutto a danno dei nostri giovani, che non crescono”.
Come è nata la scuola calcio 1 Vs 1?
“Da un'idea di Pasquale Bruno, che si era persa negli anni e che poi ho riportato in auge. L'intento è quello di mettere in difficoltà i ragazzi, di evidenziare i loro difetti e aiutarli a superare i loro limiti. Purtroppo i giovani non hanno il tempo e non hanno la strada. A noi bastava una 127 ed ecco che avevi il campo, oggi si fanno anche quattro allenamenti a settimana ma non si vedono i frutti, perché poi quando arrivano da me al termine della Scuola Calcio vedo ragazzi che, a mio parere, partono da zero. E allora ti fai delle domande...”.
Tipo che hanno speso dei soldi per cercare di imparare qualcosa che non hanno imparato?
“Anche qui il discorso per me è semplice. Faccio l'esempio dei club che vogliono seguire lo stile Barcellona, ma il Barcellona per fare settore giovanile spende milioni di euro ed è tutto per il giovane: è calcio, ma anche casa, scuola e tanto altro. Qui l'attività di base è un business che non permette grandi investimenti, senza considerare che sui “piccolini” non si lavora a differenza che in Spagna, in Italia vai bene se sei alto 1.85”.
E non si lavora tanto neanche sul singolo.
“Ma il tempo ci sarebbe. Io svolgo sui ragazzi un lavoro di una sola ora a settimana e li vedo crescere tantissimo. Se sono passato dai 3 ragazzi che avevo all'inizio ai 350 di oggi, qualcosa di buono avrò fatto. Nei settori giovanili andrebbe bene anche mezz'ora, si farebbe qualcosa di importante. Il problema è che non svolgono questo tipo di lavoro perché non sono in grado. Va bene l'allenatore, l'istruttore, l'Iseef... Va bene tutto, ma bisogna lavorare sul singolo con i giusti uomini di campo, faccio un esempio, quello di Antonio Conte”.
Prego.
“Guardate come vive la partita, quando finisce è più stanco dei giocatori. Abbiamo bisogno di persone così, che lavorano più dell'atleta, che hanno voglia e sono in grado di trasmettere i propri insegnamenti. Ci sono gli allenatori bravi tecnicamente, ci sono quelli con passione e ci sono quelli che sanno trasmettere. Le prime due qualità valgono tanto, ma quella che fa la differenza è la capacità di trasmettere il proprio credo calcistico”.
Come è il tuo rapporto con le società sportive?
“Non capisco il perché, ma ad alcune società dà fastidio il mio lavoro, arrivando anche a sconsigliare ai ragazzi una collaborazione con me. Non capisco, perché il nostro operato si integra molto bene agli insegnamenti dei club, dovrebbero nascere partnership piuttosto che problematiche. La mia grande soddisfazione è vedere i ragazzi che scelgono comunque di continuare a crescere calcisticamente da noi”.
Eppure i club traggono beneficio dal tuo operato.
“Mi chiedo perché debbano darmi contro. Ho 5.000 video dentro il mio cellulare con tutti gli esercizi dei ragazzi con cui lavoro. Ogni sera me li guardo per capire dove è il difetto del singolo al fine di poterlo migliorare nelle sessioni successive, cosa ci dovrebbe essere di male? Faccio crescere i loro giocatori”.
Hai mai provato a risponderti?
“Penso sia una questione di ignoranza o di invidia, purtroppo ci sono allenatori che pensano prima a sé stessi che ai ragazzi e non comprendono che il tecnico che rimane nella storia, a livello di giovanili, non è quello che vince, ma quello che lancia calciatori nel calcio che conta. Ovviamente questa è la mia opinione, magari mi sbaglio”.
Il momento di crisi del calcio italiano ti ha portato a pensare: apro una scuola calcio dedicata al singolo?
“No, non ho pensato a nulla, è nata così. Un mio amico mi ha detto: “Ma perché le tue qualità non le metti a disposizione dei ragazzi?”. Quindi ho cominciato con tre giovani, mio figlio (ora alla Roma), Guerini (alla Lazio) e Stampete (Lodigiani). Adesso sono tre ragazzi che sanno giocare a calcio e la loro gratitudine è la mia grande soddisfazione”.
Che obiettivo ti poni oltre ad insegnare calcio?
“Ti ripeto oggi i ragazzi non hanno la strada, ma soprattutto hanno mille distrazioni e poco tempo. Tra computer, playstation e cellulare quelli delle mani sono per assurdo i muscoli più allenati. A pagare è la postura del corpo, il ritmo, l'intensità, la coordinazione, l'aerobica. Io insegno tutto questo e ogni esercizio va fatto vedere, non va spiegato. Non capisco gli allenatori che stanno in mezzo al campo con le mani in tasca, al bambino non gli dà niente, il tecnico che esce dal campo più stanco di loro ha dato qualcosa. A prescindere dalle sue qualità deve dare tutto, e a volte mi arrabbio”.
Perché?
“Perché mi dicono che queste cose le faccio solo io, ma per quale motivo? I fondamentali del calcio sono tre: il controllo, il dribbling e il tiro. Bisogna mettersi a disposizione dei giovani, lavorare sui fondamentali alla massima intensità e già siamo a metà dell'opera. Sono convinto che il mio lavoro può portare tanti frutti alle società sportive”.
E il motivo per cui si scelgono altre tecniche di allenamento quale è?
“Perché ormai i bambini sono numeri, se cresci da solo bene altrimenti non cresci. Io sarò all'antica, però oggi prendono dati e li buttano dentro un software e non si preoccupano di dedicare tempo ai ragazzi. E i risultati quali sono? Penso alla finale scudetto Primavera Roma – Inter, non c'era un italiano perché non ci investiamo”.
Oggi suona quasi come un motto elettorale: 'insegnate la tecnica, non la tattica'. Ma quando è il momento giusto secondo te per inserire la tattica?
“Faccio un esempio: l'esterno basso che riceve palla dal portiere deve sapere che la posizione giusta è quella che gli consente la visione periferica di tutto il campo, però se quel giocatore si posiziona bene con il corpo, ma non è in grado di eseguire uno stop orientato, a che serve il situazionale? La tecnica individuale va iniziata subito e fatta sempre nel minimo particolare a qualsiasi età, anche dieci minuti. Perché nella tecnica c'è tutto: equilibrio, coordinazione, postura. Anche l'uso delle braccia che sono fondamentali nel calcio, quanto le gambe. Il tutto in funzione dell'intensità, lavoriamo a 200 all'ora, dobbiamo sbagliare perché andiamo alla massima velocità. Così, quando la domenica la stessa situazione si ripete a ritmi meno sostenuti, si è in grado di eseguirla nel modo migliore. Il situazionale va cominciato ad inserire negli esordienti, poco prima dell'agonistica.”
A me ricordi i maestri di un tempo: quelli della forca, del muro, del triangolo. Si può dire che hai rivisitato in ottica moderna quegli insegnamenti?
“Si, perfettamente. Adesso si guarda molto il fisico, l'atleta e poco il giocatore. Noi lavoriamo sulla tecnica perché il fisico prima o poi non basta più a grandi livelli. Ti faccio un esempio: Roma – Real Madrid di Champions League. I giallorossi hanno giocato a calcio ma hanno perso su un'azione personale di Cristiano Ronaldo, che è uno che si ferma dopo l'allenamento e lavora almeno un'ora in maniera maniacale. La Roma ha Salah che corre dritto come un treno e ha sbagliato due, tre gol. La differenza è là, in quei pochissimi secondi in cui devi dare il massimo e devi sapere come e cosa fare nell'uno contro uno”.
Una volta li avevamo quei giocatori.
“Una volta i nostri numeri dieci erano Baggio, Zola, Del Piero, Totti. Oggi, con tutto il rispetto, ce l'hanno Destro, Immobile. Una partita di calcio deve essere un piacere, così era un tempo qui in Italia dove assistevi a giocate di livello tecnico altissimo. Oggi sugli spalti è più probabile ascoltare commenti come: “guarda quello quanto corre, guarda che fisico” e difficilmente per una giocata realizzata. Si crea difficilmente superiorità numerica, che nasce quando si salta l'uomo, non si insegnano quasi più l'uno contro uno e le finte”.
Con tuo figlio invece che rapporto hai? Ci riferiamo al calcio.
“Lui è bravissimo, umile e davvero dotato tecnicamente. Però io sono il padre, ho il rapporto che tutti i padri hanno con i loro figli, che a volte preferiscono ascoltare di più uno sconosciuto. Quello che gli dico viene recepito da lui come un rimprovero piuttosto che come un consiglio, per questo ho deciso di evitare di parlarci di calcio e lasciarlo libero di giocare. Tanti genitori sono la rovina dei giovani calciatori, mi ci metto dentro anche io, facciamoli divertire e basta”.
350 ragazzi e nuovi collaboratori, alcuni rinomati tecnici del Lazio, ti aspettavi questa crescita?
“All'inizio ero da solo, poi pian piano ho visto che con l'aumentare delle richieste avevo bisogno di un sostegno. Ho scelto gli uomini prima degli allenatori, uomini che hanno le mie stesse idee calcistiche. Prima è arrivato Federico Fatiga, un ragazzo splendido e preparato, poi si è aggiunto Marco Di Chio, un giocatore eccezionale, così come Emanuele Mancini che ora fa parte dello staff e Roberto Fois. Il top del top è Enrico Baiocco, come ragazzo e come allenatore, c'è anche Claudio Solimina che lo conoscono tutti e adesso Maurizio Alfonsi. Stiamo lavorando alla grande e senza presunzione ti posso dire che siamo davanti a tutti”.
Che obiettivo ti poni ora?
“Vorrei che la mia scuola entrasse nelle società dilettantistiche e professionistiche per formare i giovani talenti che abbiamo in casa e per far sì che tutti possano migliorare e divertirsi giocando a calcio”.
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