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Esclusiva
08 Marzo 2016
Gianni Rivera foto @Marconi Production
Grande numero 10 – per alcuni il più grande – capitano, bandiera del Milan, pallone d’oro, dilemma azzurro, figlio, marito, padre, uomo politico. E custode. Ecco, Gianni Rivera è un custode. Di ricordi, che ha voluto donare a tifosi e appassionati in un’autobiografia unica nel suo genere, ma anche di valori antichi, che l’evolversi della società verso materialismo e voglia di arricchimento ha spento a poco a poco. Lo si comprende fin dalle prime battute della nostra chiacchierata. Generosità, altruismo, sfruttare le proprie capacità per aiutare gli altri. Come era in campo è nella vita. Ieri abilissimo nel lanciare un compagno verso la porta, oggi altrettanto pronto nell’invitare le istituzioni a lavorare per l’interesse generale. Con il 10 sulle spalle o in giacca e cravatta l’idea è sempre quella. Mettere gli altri nella condizione di dare il meglio, di vivere al meglio. Solo così gli antichi valori di cui racconta potranno tornare ad essere la spina dorsale della nostra società, da tempo alla deriva. E del nostro calcio.
Partiamo dalla sua autobiografia. Quando e come nasce questa idea?
“Avevo messo da parte un po’ di materiale proprio in prospettiva di creare qualcosa, poi l’editore ha insistito molto per un’autobiografia e con la società di mia moglie Laura (Marconi Productions, ndr) abbiamo iniziato a raccogliere, catalogare e scannerizzare tutto quello che avevo conservato”.
Un lavoro molto lungo, suppongo.
“Beh, ci sono voluti circa quattro anni e avevamo già contattato un tipografo per la grafica e quant’altro. Quando ho incontrato di nuovo l’editore, però, è quasi svenuto. Era interessato ad un racconto nudo e crudo, mentre mia moglie ed io volevamo utilizzare il materiale raccolto, con le mie foto da bambino e della mia famiglia, quelle da calciatore, i ritagli di giornale...”.
Il libro è molto corposo.
“Molto. Sono 530 pagine, le dimensioni sono 30 per 30. Così abbiamo deciso di fare tutto da soli, con la Marconi Productions e di venderlo on line. Anche perché pesando quattro chili è più comodo farselo consegnare”.
Qual è il messaggio di questo libro?
“Ho voluto raccontare il mio percorso passo dopo passo, fin da piccolo, evidenziando quello che è accaduto nella mia famiglia e nel calcio. Dai miei genitori, a mio fratello, mia moglie, i miei figli Chantal e Gianni. Cominciando dal dopoguerra, quando ricchi e meno ricchi erano impegnati per un obiettivo comune e si accontentavano di quello che avevano. Oggi, invece non basta mai nulla. Dobbiamo metterci in testa che si viveva bene anche prima”.
Una metamorfosi che ha coinvolto anche il calcio. Sono cambiate le autobiografie, sempre più orientate verso una vena polemica, sono cambiati i calciatori, i dirigenti.
“È cambiata la vita, non solo il calcio. Terminata la fase di ricostruzione man mano che economicamente e materialmente si stava meglio, ad alcuni non è più bastato quello che già avevano. Nel calcio poi, il grande mutamento è avvenuto con la pubblicità, le sponsorizzazioni, i procuratori. Tutte cose che quando giocavo non esistevano, poi è subentrato il meccanismo «denaro sempre più denaro». Speriamo si siano resi conto che l’era dei soldi è finita”.
Un business che ha derubato il calcio del suo romanticismo.
“Il romanticismo non c’è più. Prima pensavamo a giocare e poi al contratto. Ora, come naturale che sia, pensano al contratto”.
Lei è stato un calciatore esempio di tecnica e oggi si parla di decadenza tecnica del calcio italiano. Qual è il suo parere?
“Purtroppo anche nel settore giovanile le società e gli allenatori vogliono vincere. Quindi hanno cominciato a puntare sul fisico e anche se tecnicamente non hai un buon gruppo, ottieni risultati. Questo ha svilito la parte tecnica, che resta invece fondamentale. Se non sai toccare il pallone quando cresci non ti dà più retta”.
Quando era ragazzino, come erano i settori giovanili. Cosa è cambiato?
“Non frequento molto i settori giovanili, però osservo i risultati che vengono raggiunti. Si privilegia la parte tattica, invece di quella tecnica, perché il risultato è la cosa più importante. Non ho mai avuto un allenatore che mi parlasse di tattica da bambino. Una volta stabilito che uno faceva il portiere, qualcuno il difensore e gli altri gli attaccanti, ci organizzavamo nel modo giusto. Vi racconto un episodio”.
Con molto piacere.
“Nereo Rocco, quando già giocavo ad alto livello, mi ripeteva «mi te digo di fare questo, mi te digo di fare quello, ma in campo ci vai tu», italianizzando il suo triestino (ride, ndr). Mi ricordo che a volte discuteva anche con i giornalisti che gli chiedevano del modulo. La tattica era importante, ma c’era più libertà per i calciatori”.
Oltre ad un esempio di tecnica, lo è stato anche di comportamento. Oggi insegnare ai giovani la cultura della sconfitta è sempre più difficile. Come reagisce un campione davanti alle delusioni?
“Nel libro ho parlato anche delle mie sconfitte proprio per questo. Nella vita di ogni soggetto ci sono momenti belli e meno belli e in questi casi occorre saperne cogliere gli insegnamenti per migliorare le situazioni. Una sconfitta, a volte, può essere d’aiuto più di una vittoria”.
Un ragionamento non semplice da assimilare.
“Nel mio caso sono state utili le mie radici contadine. Poi grazie all’incontro con padre Eligio ho conosciuto un gruppo di ragazzi che si mettevano completamente a disposizione dei più deboli. Ero convinto che fosse così anche in politica, che si lavorasse per interesse generale”.
Invece?
“Invece nella maggior parte dei casi si ragiona su interessi personali, il rinnovamento non avviene e gli elettori non sanno da che parte andare. Quando sposai il referendum di Segni era perché aveva capito che alla DC serviva un forte rinnovamento. Invece hanno deciso di cambiare nome alla DC piuttosto che le persone e siamo ancora qui ad aspettare che si smuova qualcosa”.
Se la sente di dare un consiglio ai giovani, che rappresentano la futura classe dirigente? Come si risolleva l’Italia?
“Basta la buona volontà, capire che chi ha doti importanti deve operare nell’interesse generale per migliorare la propria condizione e quella del vicino di casa. Non dovrebbe essere difficile”.
Un po’ come fare un assist.
“Esattamente. Chi fa un assist deve essere contento come chi fa gol e dovrebbe essere così anche nella vita di tutti i giorni”.
E lo dice uno che di assist se ne intende.
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