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l'intervista
29 Marzo 2017
Curci con la maglia della Sampdoria
Riproponiamo online la nostra intervista ESCLUSIVA pubblicata sull'edizione cartacea di Gazzetta Regionale in data 27 Marzo
Guardando un calciatore professionista in televisione se ne vede solo la veste ‘istituzionale’, non se ne colgono sfumature caratteriali o tratti personali. Sinceramente è un peccato, perché incontrandone uno dal vivo, invece, si può capire molto di più di quanto lo schermo non faccia trasparire. Gianluca Curci mi è subito apparso come un gigante buono. Una persona umile, timida ma allo stesso tempo molto disponibile: un professionista esemplare, pronto e determinato a rimettersi in gioco. Un ragazzo non impostato, bensì alla mano, che si è concesso con piacere ad una chiacchierata che lo facesse tuffare indietro nel tempo, per poi dare anche uno sguardo al domani. Tra i suoi primi calci, le giovanili della Roma, vecchi compagni e maestri e intriganti progetti futuri.
Gianluca, dove hai cominciato a giocare?
“Ho iniziato all’Eur Olimpia, dai 5 agli 8 anni, poi sono passato direttamente alla Roma, dove ho fatto tutta la trafila nelle giovanili, dagli Esordienti, ai Giovanissimi e così via salendo di categoria. All’inizio ero addirittura attaccante...”
Come finisci tra i pali?
“Per un’intuizione di mio fratello, che mi suggerì di provare a giocare in porta: mi è subito piaciuto. Poi nel ’94 ci fu il provino con la Roma. Mi presero e conobbi diversi preparatori che piano piano mi fecero innamorare di questo ruolo”. Che anni sono stati quelli con la Roma? “Sono state stagioni di lavoro e sacrifici. Quando sei piccolo, a 9 - 10 anni, è difficile rinunciare a vacanze con gli amici o al tempo libero con la famiglia a causa degli allenamenti. Però ne è decisamente valsa la pena: non è facile, ma sono molto soddisfatto della carriera che ho fatto finora”.
C’è qualche ricordo o aneddoto che ricordi in maniera particolare?
“Ho tantissimi ricordi della Roma, tutti stupendi: anche solo allenarsi, o meglio farsi allenare, da personalità del calibro di Negrisolo e Tancredi, per esempio. Figure davvero incredibili, che mi hanno fatto crescere tantissimo ed a cui devo molto”.
Fai parte della leva dei primi anni ’80, cresciuto con tanti campioni. Ma tu sei uno dei pochissimi portieri riusciti ad affermarsi.
“Di quella scuola lì faceva parte anche Amelia, un campione del mondo che ha vestito maglie blasonate come quelle di Milan, dove ha vinto trofei, e Chelsea. C’è stato anche Campagnolo, ed altri che si sono persi per vicende sfortunate nonostante avessero qualità eccezionali, come Zotti. Roma ha sempre avuto questa tradizione di portieri ottimi, che però poi si sono allontanati o non sono esplosi per un ambiente che magari ha troppe pressioni”.
Come mai secondo te?
“E’ difficile, soprattutto per chi è nato e cresciuto a Roma: dovrebbe essere il contrario. Quelli che sentono meno meno l’ambiente, come gli stranieri, riescono a far bene se hanno qualità. Invece chi è ‘di casa’ può sentire il peso di questo fattore”.
Sei un portiere d’esperienza, vedi differenze tra le giovanili di vent’anni fa e quelle di oggi?
“Certamente, tantissime. Prima insegnavano a comportarti con rispetto verso i giocatori più grandi: adesso invece il calciatore giovane e quello ‘anziano’ sono praticamente la stessa cosa, non c’è più quella riverenza che c’era prima. Cosa che per esempio non manca in Germania”.
Qualche ricordo?
“Ricordo che ai tempi di Capello i giovani a fine allenamento dovevano obbligatoriamente raccogliere e pulire i palloni, oltre a fare tante altre cose per sistemare il campo. Per crescere serve anche quello. Adesso vedo i giovani ave- re atteggiamenti che ai miei tempi non potevano assolutamente verificarsi”.
Hai parlato di Germania, data la tua esperienza al Mainz: il calcio tedesco è così avanti al nostro?
“Per certi versi, sì, stanno avanti, ma su altri sono indietro. Prendiamo la tattica: in Italia se ne fa molta, è giusto. Invece in Germania si pensa prima di tutto alla forma fisica, alla corsa: i giocatori devono essere quasi dei Marines, atleti perfetti. Da noi se non ci si allena uno- due giorni, c’è lo stesso la possibilità di giocare; in Germania chi salta un allena- mento sta fuori. Inoltre sono all’avanguardia sulla questione degli stadi di proprietà e per quanto riguarda organizzazione e pianificazione”.
Torniamo ai bei ricordi, qual è la tua parata più bella?
“Ne ricordo una con tanto piacere, che ha cambiato la mia carriera: è stata quella del rigore parato a Miccoli nei quarti di finale di Coppa Italia, Fiorentina - Roma. Ci ha permesso di approdare in semifinale, dove abbiamo battuto l’Udinese di Spalletti, che l’anno successivo venne a Roma, conquistando l’insperata finale contro l’Inter per accedere alla Coppa UEFA”.
Che sensazioni rammenti di quell’episodio?
“E’ stata una grandissima soddisfazione. Dopo la partita mi chiamò il Presidente Rosella Sensi, quindi dovevo proprio aver fatto qualcosa di grandioso (ride, ndr). E’ stato proprio così, quella fu la svolta per me”.
Nelle giovanili invece, qualche parata, aneddoto o consiglio che ti ha segnato positivamente?
“Quando ho iniziato ad allenarmi con Negrisolo, preparatore dei portieri alla Roma di Capello, sono migliorato tantissimo. Il titolare era Antonioli, anche lui mi dava dei consigli che mi sono rimasti impressi in mente. Mi diceva: ‘Devi bloccare la palla, prova sempre a farlo, perché se la respingi nasce un’azione in più per gli avversari’”.
Ti capita, adesso, di ripeterla a giovani colleghi?
“E’ una frase che ho sempre ricordato, sin da quando a 17 anni ho iniziato ad allenarmi con la prima squadra. Sì, a volte oggi mi capita di usarla per aiutare qualche giovane portiere: anzi, a dir la verità la ripeto spesso”.
Hai giocato con grandi campioni, quale sarebbe la formazione ideale dei tuoi vari compagni di squadra?
“Ho avuto la fortuna di allenarmi, in Nazionale, con Peruzzi e Buffon, e quindi loro li metterei titolari, tutti e due insieme. Peruzzi credo sia stato il portiere che in carriera ha sbagliato meno, ricordo giusto l’errore del famoso 5 Maggio; su Buffon non c’è niente da aggiungere. Poi ho avuto tanti altri compagni eccezionali: Maicon, Samuel, Aldair, De Rossi, Totti, Cassano, Pazzini, Panucci”.
C’è l’imbarazzo della scelta.
“Ne potrei mettere all’infinito, fare una formazione è allo stesso tempo facile e difficile. Mi reputo fortunato ad aver giocato con tanti diversi grandi campioni, ma sceglierne undici da schierare non sarebbe affatto semplice”.
Chi era il tuo idolo da ragazzo?
“Buffon, senza dubbio. All’epoca, quando esordì in Parma-Milan, io avevo iniziato da un anno e mezzo - due a fare il portiere alla Roma, era il ’96. Vidi questo portiere giovanissimo che attaccava la palla in maniera incredibile e che giocava senza paura. Mi colpì subito”.
Guardando invece ai prossimi campioni tra i pali, come Donnarumma e Meret?
“Non ho mai visto un giovane giocare come Donnarumma, forse neanche Buffon. Esordire a 16 anni in una squadra come il Milan, non una compagine di provincia, e fare tanto bene è straordinario: se continua così e non cambierà di testa, penso possa riuscire a fare più presenze di Buffon in Nazionale. Meret è un altro prospetto molto interessante, si sta affermando con carattere”.
Terminata la carriera, in che veste ti vedi?
“Mi piacerebbe rimanere vicino al campo: come osservatore di portieri, oppure mi divertirebbe allenarli. Sinceramente non so se sono in grado di guidare una squadra, bisogna gestire tanti rapporti, tanti fattori”.
Quale consiglio vuoi dare ai giovani portieri che coltivano il loro sogno?
“Il mio consiglio è, prima di tutto, divertirsi. Perché solo quando ci si diverte si migliora. Guardando giocare mio figlio sento commenti di genitori che mettono pressioni a bambini piccoli, di 7 - 8 anni. Non va assolutamente bene, i bambini devono essere liberi: sbagliare, imparare e divertirsi”.
Si tratta di una tematica molto cara alla nostra testata. Se fossi Presidente di una società sportiva, quale soluzione adotteresti per arginare questo fenomeno?
“Quando ero piccolo, i genitori non entravano. Quindi li terrei fuori, alcuni sono troppo pressanti e mettono timo- re ai bambini, i quali poi hanno paura di andare in campo. Non li farei entrare alle partite, oppure li farei assistere da molto lontano, 30 - 40 metri, in silenzio. I bambini non sono uomini, non hanno il carattere per reagire e possono deprimersi o soffrire per certi commenti dei genitori”.
Tornando al tuo consiglio, quindi, serve solo spensieratezza?
“Certamente, divertirsi ed allenarsi finché il calcio piace. Altrimenti si può prendere un’altra strada. Se si è professionisti, le cose possono cambiare, perché lo sport diventa un lavoro. Ma a calcio o calcetto si può giocare anche a 50 anni con gli amici, se la passione rimane: la cosa fondamentale è che resti un divertimento”.
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