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L'editoriale
20 Novembre 2017
Carlo Tavecchio (©Figc.it)
Non passa. È un tormento di cui ancora non siamo in grado di comprendere l’entità. Al triplice fischio ho pensato che se fossi stato ancora bambino sarei scoppiato in un pianto inconsolabile. Piansi quando perdemmo l’Europeo contro la Francia nella finale passata alla storia come l’unica disputata sotto la regola del Golden Gol. Avevo 18 anni. Non ho pianto ma con il passare dei giorni prendo coscienza che il male è diverso, è diffuso in maniera quasi irreversibile. Perché oggi del calcio conosco dinamiche e retrodinamiche. Il dispiacere monta, non solo per un sistema visibilmente compromesso, non solo per la mancata qualificazione ai Mondiali, ma per il trattamento che questi signori riservano
al popolo italiano. Mentre in sequenza ci mettevano la faccia Buffon, Barzagli, De Rossi, la sala stampa restava gremita nella surreale attesa del CT Ventura, durata quasi due ore. Per porgere le sue scuse agli italiani, ma “solo per il risultato”, è stata necessaria domanda esplicita. La quarta di una conferenza stampa in cui nessuno della FIGC ha pensato fosse necessario prendersi responsabilità, anzi, l’ufficio stampa forzava i tempi. Come se ci fossero cose più importanti che offrire risposte a noi italiani, liberarandoci dal male, spiegandoci il perché di un dramma sportivo che ritorna, per la seconda volta nella nostra storia, 60 anni più tardi. Parliamoci chiaro, la vera tragedia è quella che si cela dietro il mancato pass mondiale contro la Svezia. In Italia il calcio è alla deriva, spinto dal malcostume, dall’interesse personale, dalla violenza, dall’aspettativa sociale. Vi porto a esempio uno dei sintomi più gravi ed evidenti, che in tanticonosciamo. Qui per giocare a calcio nel professionismo si paga. In questo paese
si paga per lavorare! Figuratevi... Vuoi fare presenze in un settore giovanile professionistico? Costa tot. Vi racconto
la storia che mi hanno spifferato, su un club di Serie C con “possibilità di debutto in prima squadra”: prezzo 8 mila euro l’anno. Ora immaginate di voler “coltivare” il talento di vostro figlio, senza esagerare, dalla categoria Allievi. Per quattro stagioni il conto è di 32 mila euro. 32 mila euro per farlo arrivare al bivio più importante: diventerà un calciatore professionista oppure no. Ma chi ve li dà tutti quei soldi per prendersi questo rischio? Chi ha 32 mila per un investimento così folle? Anche ad averli sarebbe sbagliato, ma qui entriamo nel campo delle responsabilità genitoriali e si farebbe notte. La verità è che 32 mila euro, uno di quei fenomeni che nasce ogni venti anni, molto probabilmente non li ha. È la storia ad insegnarci che vince chi ha fame, che arriva chi è disposto al sacrifi cio smisurato che richiede una carriera da professionista, che sfonda il talentuoso che ha ambizione sufficiente per superare le enormi avversità. Difficile che queste qualità possano caratterizzare la personalità dei figli delle famiglie borghesi, che sempre più numerose accompagnano il loro campione al campo ogni giorno con il suv e possono permettersi anche di assistere agli allenamenti. Ma questo è solo uno dei sintomi del male che sta uccidendo il nostro calcio, che nel nostro piccolo proveremo a debellare assumendoci le responsabilità di altri, portando a galla e approfondendo le criticità che hanno condotto alla disfatta e hanno spento l’ultima fl ebile speranza di far innamorare i giovani di questo sport, di farli correre in strada drogati di eccitazione e adrenalina dopo una vittoria della nostra nazionale davanti gli occhi del mondo, di farli giocare come se fosse illogico fare altro, di segnare nella porta rimediata in qualche piazzetta e gridare sotto la curva che non c’è per festeggiare il gol dell’eroe che cambia la nostra storia, e correre e sudare e sognare. Perché quando giochi per strada sogni di vincere il mondiale. Ma in Italia, per strada, abbiamo deciso di non giocarci più.
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