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l'editoriale
24 Settembre 2018
Cristian Totti esulta (con Marazzotti) mentre papà Francesco lo osserva da lontano... ©Mirna De Cesaris
A mio padre il calcio non piace proprio. Qualche domanda la sera per farmi contento e provare a sentirsi parte della mia passione, ma nulla più. A lui piace la musica. Sarà per questo che non ho mai giocato a pallone, nel vero senso della parola: escludo infatti i giacconi per terra e le tedesche al parco, le pigne calciate quando non c’era neanche un Supertele nei paraggi e soprattutto le partitelle di ogni lunedì a calcetto (o come le chiamo io: 5 euro buttati). Amore nato così dal nulla il mio e abbastanza tardi, altra storia ovviamente quella di Federico e Cristian. Quello è un affare di famiglia, roba di sangue, di cognome, di DNA, di papà che col pallone in mano ci sono nati. Uno Enrico, l’altro Francesco. Uno Chiesa, l’altro Totti. Bello vederli così sabato pomeriggio: il primo che applaude all’Artemio Franchi uno dei talenti più cristallini del nostro calcio affaticato (che tra l'altro ha esultato abbracciando non un raccattapalle qualunque: era il promettente fratellino Lorenzo); il secondo nella sua Trigoria in camicia, con quel sorriso sornione e romano, che da lontano scruta Cristian esultare dopo il primo gol della sua Roma. È bello vederli così, imperiosi e silenziosi. Un po’ come Roberto Muzzi nella sua Morena che ha osservato compiaciuto la doppietta del suo Nicolas, stesso ha fatto Daniele Portanova che per qualche anno ha accompagnato la crescita di Manolo, dalla Lazio, alla Juve, alla Nazionale e che due giorni fa si è goduto i due gol del figlio contro il Cagliari. Professionisti prima e dopo. Sempre in silenzio. Silenzio. Fa impressione pensarla anche solo come parola nelle tribune del calcio laziale, piene oltre che di gente e di tifo, di parole urlate, stonate e buttate lì in mezzo al campo, figlie di un rimorso, di carriere deludenti, di eredità fittizie da tramandare, di un rimpianto, di un egoismo non celato, di una misera sfida tra padri. Totti e Chiesa, non devono essere un alibi, ma un esempio. Sforzatevi, che si può avere una dignità anche sulle tribune di periferia. Un sorriso, un applauso e una pacca sulla spalla a fine partita: tanto potrebbe bastare per sentirvi un po’ professionisti anche voi. O volete dar ragione a mio padre?
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