l'editoriale
Il calcio è del popolo: chi decide ha responsabilità sociali
"Tutti i volti della violenza" è l'ultima inchiesta targata GR. Ecco la presentazione del direttore Nicola Cavaliere
Il calcio è lo sport del popolo, capace di abbracciare e coinvolgere ogni strato sociale, unico per la sua trasversalità. Unica, forse, è anche la violenza che troppo spesso si riversa sui campi senza freni, in un contesto di inciviltà ed esasperazione che ormai pare ai più un’accettabile normalità. Per chi come noi frequenta i campi il sabato e la domenica e vede centinaia di partite ogni stagione, è semplicemente disgustoso il quadro che si configura ogni week end, in campo, ma molto più di frequente sugli spalti. Dal nostro punto di vista la violenza nel calcio non è solo un’aggressione all’arbitro, ma un fenomeno diffuso, tollerato ormai come fosse una necessaria valvola di sfogo sociale e in molto casi trova il compiacimento dei presenti, molto più che la condanna. Le partite iniziano e bastano pochi minuti per assistere alle prime manifestazioni di violenza verbale, che si concretizzano spesso in volgari proteste per poi trasformarsi presto in urla disperate, insulti sfrenati, atteggiamenti fisici da bulli. Uno comincia, un altro risponde e in pochi attimi si crea un clima incredibilmente teso, dove nessuno si può indignare richiamando l’ordine e l’educazione. Si deve tacere, perché ulteriori parole, in qualsiasi direzione, non avrebbero altro effetto che alimentare. Questa fattispecie, che si configura nella quasi totalità delle partite a cui assistiamo, altro non è che una miccia costantemente accesa, che si può trasformare in pochi istanti in una potenziale manifestazione di violenza fisica. Vibrazioni che si liberano nell’aria, percepite da tutti i presenti, compresi arbitro (spesso deliberatamente attaccato affinché vada in confusione e favorisca la squadra con pubblico protestante), dirigenti e, soprattutto, i giocatori in campo. La tensione sfocia in diverse e pericolosissime forme di violenza, che sia un’aggressione all’arbitro, che sia una rissa tra giocatori, tra gli spettatori delle due squadre o ancora tra atleti e pubblico.
Con questa inchiesta vogliamo andare a porre in risalto la responsabilità sociale del giudice sportivo che, come un buon padre di famiglia, ha il gravoso compito di decidere quali punizioni infliggere ogni volta qualcuno sbaglia e contravviene alle regole. Non serve addentrarsi in chissà quali disamine per comprendere che una pena non sortisce gli effetti sperati quando poco afflittiva, difforme da casi analoghi, arrivando anche ad essere poco educativa o comunque non curante della tutela di chi rispetta il gioco e del valore sociale dello sport. Non siamo in sintonia con l’operato della giustizia sportiva qui nel Lazio, una regione dalle grandi differenze sociali. Senza ipocrisia, possiamo dire che nel quartiere Parioli, presumibilmente, non ci saranno le stesse problematiche che a San Basilio. Va detto che certi club sono violenti e operano con disonestà e vanno individuati e severamente puniti, eppure in alcuni casi, nonostante evidenti responsabilità o mancanze gravi dei tesserati, le sentenze che arrivano sembrano inappropriate, per usare un eufemismo. D’altro canto ci sono società che la violenza la combattono in situazioni disperate e spesso non possono gestire l’alto tasso di delinquenza presente nel territorio. La giustizia sportiva è assolutamente in grado di conoscere e saper distinguere quali sono le aree con maggiori criticità (lo sappiamo noi!), così potrebbe concretamente cominciare a intervenire, non solo punendo, ma assistendo chi da solo non possono sostenere il peso del degrado sociale che nulla ha a che fare con il calcio ma che penetra con estrema semplicità. Perché non creare un tavolo permanente con le dirigenze che segnalano criticità? Perché non dare la possibilità ai club che vivono in quartieri disagiati di avere un appoggio, di essere ascoltati, di poter denunciare? Davanti a una comprovata impossibilità nell’intervenire, che senso ha punire nel nome di una responsabilità oggettiva sempre più anacronistica a livello giuridico? Non sarebbe meglio intervenire sull’ordine pubblico, facendo giocare le partite a porte chiuse piuttosto che rifilare ammende irrisorie e in alcuni casi insensate? È l’inizio di un nuovo cammino, durante il quale cercheremo di trovare risposte certe nelle maglie divergenti della giustizia sportiva.