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l'intervista
08 Gennaio 2019
Marco Cassetti
Un numero. Anzi due. L’uno accanto all’altro. Come una firma, un marchio, uno spauracchio, un ricordo. Il Sogno per alcuni, l’Incubo per tutti gli altri. Sette più sette. Settantasette. Sulla schiena e sul cronometro. Marco Cassetti questa cifra ce l'ha tatuata nell’anima più che sulla pelle. Non solo è stato il suo numero di maglia in tutti i suoi anni romanisti ma segna anche il minuto esatto del suo gol, decisivo, al derby. L’impossibile che diventa realtà, il popolo al potere, la classe operaia che va in Paradiso. La gioia, enorme, che però, purtroppo rimane incompleta. A dieci anni da quella notte magica che i tifosi romanisti ricordano ancora con commozione e a quasi sette dal suo addio alla Roma, Marco Cassetti si racconta alle colonne di Gazzetta Regionale. Zeman, Spalletti, gli Scudetti sfiorati nel 2008 e nel 2010, gli scherzi a Mexes, il futuro di De Rossi e le sue idee per salvare il calcio italiano. 
Marco la domanda nasce spontanea e senza citare per forza Lubrano: come fa un bresciano ad innamorarsi di Roma e della Roma? La stessa cosa è successa, tra l’altro, a un milanese come Marco Delvecchio e a un triestino come Max Tonetto…
“E' normalissimo sia accaduto: la Roma è il club nel quale ho militato più tempo e quello che mi ha permesso di giocare a certi livelli. In più nella Capitale è nata mia figlia, per cui…”
Nella sua carriera ha avuto allenatori geniali ma dal carattere particolare come Zeman e Spalletti. Ce li saprebbe raccontare? Perché hanno vinto così poco?
“Sono due tecnici molto diversi. Zeman è un integralista: va sempre dritto per la sua strada e non sente nessuna ragione. Non accetta nessun consiglio se non quelli che gli dà direttamente il suo pensiero. Spalletti, invece, lo reputo uno dei migliori tecnici in circolazione. è il suo carattere a penalizzarlo”.
Sarebbe capace di descrivere l’emozione che si prova segnando un gol al derby, decisivo e sotto la propria curva?
“Impossibile riuscirci: non mi aspettavo di essere il protagonista di quella serata. Tra l’altro non ero nemmeno partito titolare, entrai a fine primo tempo al posto di Mexes. Che serata! Fu tutto bellissimo. Molto. Troppo. Facciamo così: tengo tutto per me, è complicato riuscire a trasmettere a parole quello che sentii in quel momento”.
Con la Roma ha sfiorato due Scudetti: il primo nel 2008, l’altro nel 2010. Quale di queste due stagioni le ha lasciato maggiori rimpianti?
“Sicuramente quella del 2010 con Ranieri. Nel 2008, nonostante una grandissima rincorsa, non riuscimmo mai, nemmeno una volta, a mettere il muso davanti all’Inter: dipendevamo sempre da qualcun altro. Due anni, dopo, invece, una volta vinta la gara contro l’Atalanta (Cassetti segnò il gol del momentaneo 2-0 ndr) e aver sorpassato i nerazzurri, non avemmo la forza e forse la fortuna, di mantenere il primato fino alla fine”.

Arrivato nel 2006, ha lasciato la Roma 6 stagioni dopo nel 2012. Dal suo approdo nella Capitale sono passati ben 13 anni: ora può raccontarci qualcosa, chiaramente caduta in prescrizione, che non sa nessuno…
“Tutti pensano che nello spogliatoio chissà cosa accada. Pensate, però, che una rosa si compone per lo più di ragazzi. Che da ragazzi si comportano. Noi adoravamo fare gli scherzi a Mexes, ad esempio. Nonostante il fisico imponente, Phil era abbastanza fifone: temeva insetti e animali. A volte, capitava, che dentro a scatole che dovevano contenere le scarpe trovava qualcos’altro…”
Lei ha vissuto la gestione familiare dei Sensi e quella imprenditoriale degli americani: pregi e difetti di entrambe?
“Della presidenza USA posso parlare poco: alla fine l’ho provata solo per un anno, il mio ultimo in giallorosso. I Sensi erano riusciti a trasformare il club in una famiglia. All’interno di Trigoria si vivevano sensazioni particolari, difficili da spiegare. Se mi chiedete un confronto, però, non posso aiutarvi: voglio aspettare ancora un po’”.
Meglio l’assist a Totti per il gol contro la Samp o gli ultimi due minuti di Watford-Leicester, semifinale play off della Championship?
“Non posso scegliere tra due eventi simili: i momenti sono totalmente diversi. Diciamo che entrambe le scene, le porto in cima alle soddisfazioni più importanti della mia carriera”.
Perché Luis Enrique a Roma non è riuscito ad affermarsi, e anzi ancora oggi è ricordato come un incompetente, invece col Barcellona ha vinto tutto? è la Serie A a non averlo capito oppure con quella rosa, al Barca, avrebbe trionfato chiunque?
“Le idee di Luis Enrique non sono applicabili in Italia. Semplicemente non sono adatte, né ora né mai. Tutto è dipeso da quello, tant’è che il mister con i blaugrana è riuscito a conquistare il triplete: cosa sfuggita ai suoi predecessori, per quanto fossero più esperti e forse più blasonati. Luis Enrique è un ottimo tecnico, anche se non mi ha fatto mai giocare (ride ndr)”.
In una recente intervista, Monchi ha dichiarato che i tifosi hanno ragione a lamentarsi: è tempo di vincere. Inoltre, ha anche detto che sapendo come lavorano, lui e il suo staff, i trionfi non sono poi così lontani. è d’accordo?
“Più che altro lo spero. La Roma e la sua gente hanno bisogno di un successo. Se lo meritano tutti”.
Totti ha scelto la carriera dirigenziale, De Rossi sarà il nuovo allenatore della Roma?
“Daniele farà il tecnico. Ve lo garantisco al 200%. Non so dirvi se potrà partire direttamente dalla prima squadra. Magari sarebbe meglio prima farsi le ossa su qualche panchina giovanile”.
Da qualche mese ha seguito Christian Panucci come allenatore in seconda della nazionale albanese. Per lavoro, quindi, deve valutare tanti calciatori, in moltissimi campionati. In più ha giocato anche in Inghilterra. Come si spiega il momento del calcio italiano e della Nazionale?
“La Serie A è divisa in quattro tronconi: basta guardare la classifica. La Juventus, le sue inseguitrici, un troncone di mezzo con squadre che vivacchiano e i club che lottano per non retrocedere. Il campionato italiano non è più affascinante come lo era una volta. Il compito di Mancini, poi, è ancora più complicato: di giocatori bravi ce ne sono pochi, in più alcuni giovani non trovano spazio. Ormai il risultato è diventato troppo importante, gli allenatori non rischiano più”.

Cosa manca nei settori giovanili italiani di oggi?
“I tecnici pensano troppo al risultato. Li capisco: è un discorso personale e anche condivisibile. Chi parte dalle giovanili, pensa che vincendo campionati su campionati possa avere la possibilità di cimentarsi con categorie più importanti. Invece non dovrebbe essere così. Bisognerebbe concentrarsi sulla crescita dei ragazzi. Ecco, la soluzione sarebbe fare una scelta non appena usciti da Coverciano, dal corso allenatori: decidere se dedicarsi al settore giovanile o ai “grandi”. Sono dell’idea che anche le classifiche dovrebbero sparire: i mister dovrebbero essere giudicati per quanto fanno crescere i loro giocatori, non per quanto hanno vinto. Per questo ammiro tanto Alberto De Rossi: non ha mai voluto dedicarsi a categorie diverse. Dentro di sé sente che quello è il suo mestiere, che può fare bene”.
Da quando ha iniziato a calcare i campi di calcio, anno dopo anno, la figura del procuratore ha assunto sempre più importanza. Che ne pensa di questa categoria e ha senso che ragazzi molto giovani abbiano il procuratore? Che consigli darebbe?
“Non possiamo nasconderci: i procuratori sono molto potenti. Indirizzano le campagne acquisti dei club e le carriere dei giocatori. E’ normale che anche i giovanissimi usufruiscano del loro lavoro. Un consiglio? Se non c’è un regolamento che lo vieta, occorre adeguarsi: non avere qualcuno che segue i propri interessi può offrire meno possibilità, lasciarti indietro. E in questo mondo ogni secondo è prezioso”.
Come arginare il fenomeno che vede sempre più arbitri, nelle categorie dilettanti, aggrediti non solo dai “tifosi” ma anche dai tesserati…
“Ci si interroga da anni, senza trovare soluzioni. è la cultura sportiva che va cambiata. Hai detto niente…”.
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