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L'intervista
03 Dicembre 2025
Aldo Grauso
Ma cosa succede a un ragazzo di 13 o 14 anni se non gioca? Abbiamo avuto il piacere di confrontarci con lo Psicologo dello Sport Aldo Grauso, il quale ha analizzato il risultato dei dati e spiegato gli effetti provocati ad un ragazzo che o rimane in panchina per tutta la gara o gioca uno spezzone di essa: "L'età tra i 13 e i 14 anni è una fase cruciale per la crescita di un ragazzo, non solo a livello fisico ma soprattutto psicologico e sociale. In questo periodo, l'identità si sta consolidando e l'attività sportiva, in particolare il calcio in Italia, gioca un ruolo fondamentale. Il fatto di non giocare regolarmente a questa età può scatenare una serie di reazioni complesse nella mente del ragazzo, tra cui senso di inadeguatezza e svalutazione (può sentirsi meno bravo degli altri), perdita di motivazione, tra cui si riduce la gioia del gioco che dovrebbe invece essere il punto cardine, e la demoralizzazione o la reazione positiva. Con quest’ultima, si intende trasformare la frustrazione in impegno extra, ma questo richiede una maturità emotiva e un supporto ambientale che non tutti i quattordicenni possiedono. Senza un dialogo aperto e un allenatore/genitore che fanno da supporto, il rischio è di entrare in un circolo vizioso di bassa autostima e disinteresse".
Inoltre, intende analizzare il comportamento dei genitori, che spesso preferiscono far fare panchina al figlio in una squadra blasonata anziché permettere al figlio di giocare e divertirsi: "Spesso dietro questa scelta, c'è una forte componente di aspettativa esterna e interna. Il riscatto sociale è una dinamica psicologica molto diffusa. Un genitore che non ha realizzato i propri sogni sportivi o professionali può, inconsciamente o meno, caricare le proprie ambizioni sul figlio, vedendolo come una seconda chance. La possibilità di vantarsi perché il figlio giochi in una società importante è un tentativo di legittimare gli sforzi e le speranze della famiglia. Un ragazzo a quest’età capisce eccome la pressione esterna, anche se spesso non la verbalizza. Egli, l’avverte anche solo con le espressioni ed i silenzi dei genitori, al valore che questi attribuiscono allo sport e la tensione prima della partita. Un ragazzo poi reagisce in due modi: o si rifiuta a scendere in campo sviluppando ansia da prestazione oppure si impegna in maniera eccessiva, ma non per amore del gioco, ma per guadagnare l’approvazione e l’amore dei suoi genitori. In entrambi i casi, il divertimento viene soffocato".
Il fatto di non giocare quasi mai, può allontanare il ragazzo non solo dal calcio, ma anche dallo sport. "Il tasso di drop-out (abbandono precoce) nel calcio giovanile, in particolare dai 14 ai 17 anni, si attesta intorno al 30%. Un ragazzo su tre che gioca nel calcio giovanile (Esordienti-Giovanissimi) abbandona l’attività prima di arrivare alla maggiore età. Secondo i dati ISTAT 2024, l'età media di abbandono per i maschi è 15 anni. Il Covid poi, ha lasciato una profonda cicatrice. Nella stagione 2020-2021, si persero circa 200.000 tesserati nel settore giovanile (un calo drammatico del 20-25%). Dopo tre anni però, questi tesserati sono stati in un certo senso recuperati. Ma nonostante questo, è aumentata la fragilità nella fascia 11-14 anni. I dati mostrano che la sedentarietà in questa fascia specifica è cresciuta di circa 6 punti percentuali post-Covid. Questo significa che, anche se i ragazzi si iscrivono, sono meno resilienti: alla prima difficoltà (panchina, cambio allenatore, voto basso a scuola) tendono a mollare più facilmente rispetto al passato. Questo inoltre, influenza anche la vita quotidiana. Se il ragazzo associa la competizione sul campo alla sofferenza emotiva, questo può condizionare il suo futuro. Può portare meno capacità di affrontare le difficoltà della vita, come fallire un esame o non ottenere un lavoro, tendenza a vedere ogni compito come un test per la propria validità. Lo sport, in questo caso, non insegna ad affrontare il fallimento costruttivamente, ma ad evitarlo, con ripercussioni che vanno ben oltre il mondo del calcio. In conclusione, possiamo dire che la ragione per cui questo sport non è visto come un semplice divertimento è dato da più fattori: i club che sono sempre più orientati al risultato e al talento da scovare, i genitori che creano un clima di serietà ed investimento. Infine, c’è il ragazzo in sé che, vedendo l’enfasi della vittoria, finisce per associare l’essere accettato e valorizzato dalla società solo per il risultato e per la prestazione".
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