L'intervista

Jimmy Maini: "Italia in crisi? Mancano gli istruttori"

L'ex centrocampista di Roma, Vicenza e Milan analizza il momento del calcio italiano: "I club pensano solo alle coppe"

Pensi a Jimmy Maini e non puoi che ricordare due colori: il bianco e il rosso. Il palo del Menti, il centrocampo con Ambrosini, i gol di Luiso e Otero, la Coppa Italia e la semifinale di Coppa delle Coppe contro il Chelsea di Gianluca Vialli. La vittoria in casa e poi i blues che la ribaltano a Stamford Bridge, soprattutto con l’aiuto dell’arbitro. Era il 1998. Una vita fa. Un calcio fa. Una Serie A fa. Quella in cui c’erano le Sette Sorelle, in cui si poteva vincere e perdere con tutti. In cui Davide, leggi Vicenza, partita dopo partita, minuto dopo minuto, poteva scoprirsi Golia. E mettere in fila non solo l’Italia ma anche l’Europa.  Un’intervista al sapor di malinconia, quella che il centrocampista romano (e romanista) ha concesso alle nostre colonne. Con i piedi, però, sempre ben piantati per terra. Perché è vero: senza calcio non si può vivere ma da questo a sentirsi i nuovi Mourinho ce ne passa. Jimmy lo sa bene. E infatti si diverte alla Jem’s con i “suoi” bambini. Al futuro ci si penserà. In fondo c’è tempo per diventare grandi. Specie per chi continua a credere che un gol alla Lazio sia meglio di una Velina…



Giampiero, la sua vita non può esulare dal campo, immaginiamo…

“Esattamente. Amo il calcio e non posso davvero farne a meno. Da qualche anno faccio l’allenatore. Ora sono alla Jem’s, la scuola calcio di due amici Simone Perrotta e Max Tonetto. Seguo due gruppi: uno del 2006 e l’altro del 2007. Mi diverto davvero tantissimo”.


Questa è la sua “missione” oppure vorrebbe avere l’occasione anche di cimentarsi con i grandi?

“L’ambizione c’è, sono sincero. Non nascondo che ci sarebbe la voglia e il desiderio di potermi confrontare con realtà anche più impegnative. Quello che faccio oggi, però, con estrema attenzione, dedizione e professionalità, mi gratifica tantissimo. Soprattutto sotto l’aspetto umano”. 


Quanto è cambiato, negli anni, il Settore Giovanile?

“Molto. E per una serie di motivi. E per alcune metodologie più o meno condivise e condivisibili. Ci sono club che lavorano sull’aspetto tattico anche con squadre di bambini. Mi sembra una follia. Esistono anche altre filosofie di pensiero, tipo quella che portiamo avanti alla Jem’s: preferiamo dare spazio alla fantasia, alla creatività, alla gestualità tecnica, lasciando il percorso tattico per gli anni a venire”.


Perché il calcio italiano non riesce più a sfornare talenti?

“Mancano gli istruttori e i formatori di base. C’è gente che si approccia ai bambini e non ha le competenze per farlo. Né tecniche, né fisiche, né coordinative. Purtroppo basta mettersi la tuta per sentirsi subito allenatori. Il nostro principale compito è far crescere i ragazzi. Dobbiamo insegnargli tante cose, dai valori sportivi alle gestualità tecniche, da come si sta in un contesto di squadra a come ci si comporta. L’aspetto tecnico deve venire in un secondo momento”.


Come si spiega la presenza di tanti stranieri?

“L’obiettivo non è la crescita dei ragazzi ma la conquista dei titoli. Se studiamo i tabellini delle società professionistiche più importanti, noteremo che almeno 5-6 calciatori non sono italiani. Questa scelta, rispettabile sia chiaro, toglie spazio ai nostri ragazzi. E tutto magari per vincere un torneo che con un gruppo di bimbi di dieci anni risulta una gioia un po’ effimera. Io sarei più lungimirante…”


Forse è una semplice questione economica? Con gli stranieri c’è un maggior margine di guadagno?

“E’ vero che il ragazzo che viene da fuori costa meno. Pensa all’Udinese: ogni anno acquista una miriade di giocatori e, dopo averli valorizzati, prova a venderli bene. Ma per i cinque, sei, sette calciatori che si sono affermati, ce ne sono altri trenta che non ce l’hanno fatta togliendo spazio a tanti talenti italiani”. 


Capitolo procuratori: ultimamente c'è qualche furbetto.

“Ognuno lavora a modo suo ma credo che accanto al procuratore, bisognerebbe far nascere e crescere una figura di riferimento non solo tecnico ma che sappia prendersi cura anche dell’aspetto caratteriale e mentale del proprio assistito. Ci sono professionisti che sanno poco o niente sui loro giocatori: non ne conoscono le qualità, i pregi, i difetti. Neanche il piede preferito”.


Paolo Negro, qualche settimana fa, ci ha detto che i procuratori ormai cercano più le famiglie facoltose che i calciatori con talento…

“E’ un’altra lettura. Non ne ho idea. So che ci sono degli interessi enormi e che per forza bisogna parlare con i genitori. Un ragazzino di dieci-dodici anni, però, non ha bisogno del procuratore. In più, è ingiusto illudere i bambini: far credere loro che potrebbero giocare in Serie A. E’ un comportamento inaccettabile”. 


Dopo una carriera in giro per l’Italia, ha deciso di chiudere la propria parabola calcistica tra i Dilettanti. Nessuno le ha offerto una panchina?

“A Fabriano disputai solo due partite. Parlai col Presidente, ringraziai e me ne andai: non volevo rubare i soldi. Alla Boreale, invece, ho fatto un solo allenamento e non sono mai sceso in campo (ride, ndr). No, nessuno mi ha mai proposto di allenare ma la cosa non mi dispiace. Il calcio dilettantistico è molto peggio di quello professionistico. Ci sono dinamiche ancora più basse. Preferisco seguire i miei bambini alla Jem’s”. 


Forse non ha mai allenato tra i dilettanti perché qualcuno le ha chiesto lo sponsor…

“Non è importante se è successo a me, conosco alla perfezione questi comportamenti e me ne tengo più che lontano. Non è un mistero che nelle serie minori accadano queste cose: è una pessima abitudine, una piaga che va assolutamente debellata. Se si allena perché si paga o perché si fa giocare il figlio del presidente, allora è giusto che l’Italia sia fuori da tutto”. 


Lei è romano e romanista, quindi sa perfettamente cosa vuol dire tifare quei colori, indossare quella maglia e subire la pressione della piazza. Che consigli darebbe a Nicolò Zaniolo, attuale astro nascente del calcio italiano?

“Ho un ottimo rapporto con il procuratore: Claudio Vigorelli. Spesso vado a Trigoria in sua compagnia, così mi godo da vicino la crescita di questo ragazzo. E’ un bel problema quello della notorietà: se lo sta ponendo l’agente, la società, lo stesso calciatore. Zaniolo va gestito: sappiamo quante insidie nasconde una città come Roma. Nicolò, però, deve rimanere tranquillo: ha giocato tre mesi di gran calcio, ha fatto vedere cose straordinarie. Confido in Eusebio Di Francesco: in questo è bravissimo”. 


Condivide le critiche a Monchi?

“L’opinione pubblica è spaccata. Ma se andiamo ad analizzare meriti e demeriti, dobbiamo anche dire che, quella estiva, è stata la prima vera campagna acquisti dello spagnolo. Ha fatto alcune cose bene e altre meno bene. Gli estremi sono Zaniolo e Pastore”. 


L’andamento altalenante della Roma è davvero da far risalire all’addio di leader carismatici come Nainggolan, Strootman e Alisson?

“Sicuramente sono mancati e in più di un’occasione. Ma attribuire alle loro assenze tutto il resto, mi sembra riduttivo. E’ anche vero che se perdi 4-5 giocatori di questo calibro, il gruppo ne risente. Una squadra giovane, come quella che ha costruito Monchi, ha bisogno di riferimenti, in campo e fuori”. 


Di Francesco può darglieli?

“L’ho già detto, Eusebio è una garanzia da questo punto di vista. Ma i giovani hanno bisogno di leader carismatici: De Rossi lo è. E, infatti, da quando è rientrato, la musica è cambiata”.


La Lazio, invece, sta pagando la rosa corta e i tanti infortuni?

“Non c’è altra spiegazione. Col Genoa non meritava di perdere: al di là del gol di Criscito che ha, poi, deciso il match, la Lazio ha avuto diverse occasioni per chiudere la partita e non le ha concretizzate. Mai lasciare in bilico una gara simile. Però, sì, sta pagando le tante defezioni come è capitato in precedenza a Milan e Roma”. 


Torniamo alla sua carriera: lei ha cambiato, davvero, moltissime maglie…

“Mi è sempre piaciuto conoscere posti nuovi, avere nuove motivazioni, vedere gente diversa. Questo mi ha condizionato molto: non sono rimasto più di tre anni nello stesso club”.


C’è nostalgia per il calcio degli anni ’90? Quello delle “sette sorelle”?

“Tantissima. Ma questo sport è anche cambiato molto, sia tecnicamente che nella velocità. La Serie A in cui ho giocato io, era fantastica perché si poteva fare risultato con chiunque. Ora avviene raramente: le prime tre o quattro della classe fanno davvero un campionato a parte”.


Ma il motivo? C’era più denaro da investire?

“Semmai il contrario. Ora con i diritti Tv, gli sponsor e tutto il resto, la forbice incredibilmente è aumentata. I soldi sono davvero distribuiti malissimo. Prima alcuni valori venivano più fuori, basti pensare a quello che abbiamo fatto noi a Vicenza. Eravamo una squadra di giovani semisconosciuti e abbiamo vinto la Coppa Italia, abbiamo raggiunto la semifinale di Coppa delle Coppe, siamo stati in testa in Serie A per due mesi consecutivi. Ora sarebbe molto più complicato concretizzare una scalata simile. Noi eravamo organizzati, avevamo fame e riuscivamo in questa maniera a sopperire le carenze tecniche che accusavamo contro squadre più forti. L’Atalanta di Gasperini un po’ mi ricorda quel Vicenza”. 


Quegli anni in Veneto sono stati i più alti della sua carriera?

“Direi di sì. Da lì sono andato al Milan, ho ricevuto la chiamata in Nazionale. La mia carriera, comunque, è stata altalenante. Non esiste un motivo chiaro: gli infortuni, forse”.


Chiudiamo con una risata: meglio un gol alla Lazio o fare coppia con una Velina? (Giampiero è stato fidanzato con Alessia Merz: il primo caso di binomio calciatore-soubrette)

“L’1-0 alla Lazio, siglato al Menti, è un qualcosa che non si dimentica. A volte mi capita di ripensarci e ho ancora la pelle d’oca. Sai che ti dico? Mi sa che scelgo il gol alla Lazio!”

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